
La dismorfia Digitale nata dai social
Partiamo dal principio: per dismorfia o disturbo da dismorfismo corporeo si fa riferimento ad una alterazione falsata del proprio sé.
In altre parole, rappresenta quella condizione psicologica per cui molto spesso allo specchio, ci fissiamo su una o più caratteristiche del nostro aspetto che non ci vanno a genio.
Oggi più che mai, la rappresentazione della bellezza richiede libertà di espressione e la coesistenza di più canoni estetici.
La ricerca della migliore versione di se stessi va di pari passo all’etica della body e skin positivity, che valorizza la naturalezza e l’imperfezione come elementi di autenticità.
Quando ci guardiamo allo specchio non vediamo solo un’immagine da giudicare, ma da percepire e da sentire.
Social, social delle mie brame
Ora, con l’avvento dei social media, questa situazione ha profondamente cambiato il nostro modo di comunicare e di mostrarci agli altri.
Infatti, la costante ricerca di una perfezione astratta, che esiste solo nella nostra mente, ci ha portato ad una vera a propria dipendenza da come la gente ci vede sui social.
In questo senso, il mondo digitale sembra aver trovato una soluzione immediata ai nostri difetti: dei filtri che modificano, spesso anche in maniera totale, come appariamo al mondo e soprattutto, come appariamo a noi stessi.
Che siano occhi più grandi, labbra più evidenti, antirughe vari ormai di post che ci mostrano “au naturel” sembra non essercene più traccia.
Il problema di questa soluzione immediata offerta dai social è che poi la persona deve vivere nel mondo reale.
A tal proposito, numerose ricerche hanno evidenziato come sono molte le forme di insoddisfazione corporea nate online.
Cos’è la Dismorfia Digitale?
In questo caso si parla di “dismorfia digitale”: la nostra immagine riflessa sullo schermo ci può portare a sovrastimare difetti e imperfezioni.
In altre parole, sembra che ci troviamo davanti ad una nuova forma di disfmorfismo corporeo.
Nel DSM-V il “disturbo da difmorfismo corporeo” viene classificato tra i disturbi ossessivo- compulsivi.
L’ossessione, in questo caso, si basa sull’eccessiva e persistente preoccupazione per difetti fisici, anche se minimi o assenti.
La compulsione, invece, consiste nell’osservare continuamente queste parti del corpo incriminate, confrontandole con quelle “incolpevoli” delle altre persone.
Questo meccanismo genera stati d’ansia e di preoccupazioni tali da compromettere la sfera personale e sociale di chi ne soffre.
Il disturbo da dismorfismo corporeo esordisce, solitamente, nell’adolescenza e sembra essere più frequente nel sesso femminile.
Circa l’1,7 – 2,9% delle persone sperimenta questo disagio almeno una volta nella propria vita.
La dismorfia su Zoom
Dall’inizio della pandemia le piattaforme online di Zoom, Microsoft Team, Skype, Facetime ed altri siti, hanno abituato gradualmente le persone a specchiarsi nello schermo del pc e del cellulare.
In particolare, una ricerca del 2020 ha rilevato una tendenza alla “Zoom dysmorphia” riassumibile come il disagio sperimentato nel guardare la propria immagine durante le videochiamate di lavoro.
Questo nuovo modo di vedersi ha però creato un bel problema: guardarsi da vicino ha evidenziato la comparsa di rughe, occhiaie e doppio mento.
Sembrano essere in molte, infatti, le persone che tendono a usare filtri per ritoccare il proprio aspetto durante queste videocall.
Ma questo non è tutto: negli ultimi anni, molti professionisti nell’ambito dell’estetica come dermatologi e chirurghi plastici hanno assistito ad un aumento di richieste di interventi.
In particolare, secondo il report del Financial Times, gli interventi, nel 2020, si sono quintuplicati rispetto all’inizio del 2019.
Secondo Pfund e collaboratori (2020), spesso le richieste di ritocchi chirurgici sono correlate alla propria immagine digitale.
Infatti, la maggior parte dei trattamenti derivano dalla volontà di assomigliare alle foto modificate con i filtri delle app.
Si tratta principalmente di lifting, botox e procedure simili per tirarsi la faccia e per mostrarsi al meglio durante le videoconferenze.
I difetti fisici sono stati letteralmente zoomati ed hanno causato un fuggi fuggi dal chirurgo.
Una tendenza per lo più femminile
Secondo una ricerca tutta al femminile, intitolata Fear the Instagram: beauty stereotypes, body image and Instagram use in a sample of male and female adolescents, sembra che siano le donne a passare più tempo a caricare foto e vivere con più ansia la manifestazione del proprio corpo.
Il team, costituito da Valeria Verrastro, Lilybeth Fontanesi, Francesca Liga, Francesca Cuzzocrea, Maria Cristina Gugliandolo, ha svolto un’analisi su 621 studenti, di età compresa tra i 15 e i 25 anni, di cui il 61% di sesso femminile.
In particolare, lo studio mirava a verificare:
- Le abitudini nell’utilizzo di Instagram
- La correlazione tra la scelta di modificare le proprie immagini e l’esperienza di ansia connessa al bisogno di amalgamarsi agli stereotipi sociali
- Il concetto di appartenenza al mondo online.
Il Progetto (No)body
Dalla volontà di ristabilire la percezione e la visione del corpo, nasce il progetto (no)body, splendida iniziativa partorita dalla mente di Giada Alberti, giovane psicologa clinica in rampa di lancio.
Nello specifico, Giada ha chiesto alle persone di fotografare una parte del proprio corpo che più le rappresentasse e di accompagnare questa foto con una didascalia che spiegasse il perché.
Il comune denominatore: essere padrone e protagoniste di storie custodite negli anfratti dei propri corpi.
Le 170 fotografie sono state raccolte in un’esposizione allestita a Roma nel borgo di Monterotondo e ogni mese, vengono sostituite e aggiornate a rotazione.
Il titolo del progetto è provocatorio: (NO)BODY, inteso come “non solo un corpo”.
Secondo Giada infatti, il corpo è molto più che “un agglomerato di pelle, ossa e muscoli, bensì uno scrigno che custodisce tutte le esperienze vissute”.
Il significato sta nel restituire al proprio corpo un valore che vada al di là di concetti puramente estetici trasformandolo in un simbolo del nostro vissuto.
E questo potrebbe sicuramente rappresentare un primo passo verso l’accettazione di sé.
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