Selfie: essere o apparire?
Immaginate di essere in procinto di mangiare una pietanza particolare, oppure di ritrovarvi accanto alla persona che amate in un paesaggio meraviglioso, oppure di specchiarvi domani mattina e scoprirvi particolarmente in forma! Inutile negare, la nostra mano si ritroverà istintivamente protesa verso la tasca, alla ricerca del fidato smartphone, pronta a scattarci un bel selfie!
Ma che tipo di meccanismo psicologico scatta in quel momento dentro di noi?
Trascorrere una buona parte del tempo sui social è ormai una prassi consolidata per la maggior parte della popolazione mondiale. Le attività compulsive legate alla partecipazione ai social network dettano regole, la modalità e la necessità di promuoversi attraverso i continui cambiamenti di stato, post, condivisioni, dirette, localizzazioni e quanto altro. Siamo impegnati ad attirare attenzione, sfruttando al meglio le nuove tecnologie, e lo schermo è diventato il luogo perfetto dove cercare soddisfazione al bisogno di autostima, al rafforzamento della propria immagine e il desiderio di visibilità (Mazzucchelli, 2016).
I social network permettono di condividere continuamente foto e immagini che spesso diventano esse stesse il messaggio, e le foto che maggiormente canalizzano l’attenzione sono i cosiddetti selfie.
Il selfie è una sorta di autoritratto, che rientra nella cultura dei social network. Nel 2013 l’Oxford Dictionaries ha scelto la parola Selfie come parola dell’anno, ed è stata inserita ufficialmente nel vocabolario inglese con la seguente definizione: “una fotografia che una persona ha fatto di se stessa, normalmente con uno smartphone o una webcam, e poi ha pubblicato su uno dei social media”.
L’eccessivo utilizzo di questa pratica ha suscitato diverse considerazioni rispetto alle sue implicazioni psicologiche. Negli Stati Uniti si è già cominciato a parlare di “Selfie-Syndrome”, una patologia che colpisce le persone eccessivamente preoccupate della propria immagine digitale. Tale disordine della personalità viene spesso associato al narcisismo, tratto tipico degli individui che ne fanno una pratica eccessiva.
Ma c’è davvero soltanto una componente narcisistica in questo fenomeno?
Prima di definire questa pratica come un sintomo patologico d’implicazione narcisistica, occorre tenere in considerazione il mezzo utilizzato per praticarlo. Il selfie non è soltanto indirizzato verso se stessi, ma nella quasi totalità delle volte è destinato agli altri, in quanto lo scopo è quello di essere condiviso, e proprio per questo viene ormai considerato una pratica sociale. Questa compulsione autobiografica sembra piuttosto rappresentare il bisogno assoluto di lasciare una traccia della propria esistenza (Ferrari, 2008).
Il selfie è uno degli strumenti che utilizziamo per definire la nostra identità, in quanto l’autoritratto, da sempre, ha la funzione di comunicare la nostra auto-immagine, ovvero il modo in cui definiamo noi stessi. In psicologia sociale si parla di “looking-glass self”, ossia il modo in cui noi crediamo di essere.
L’Università Cattolica di Milano nel 2014 ha realizzato a riguardo una ricerca dalla quale sono emersi risultati molto interessanti. Vi hanno partecipato 150 persone, con età media di 32 anni. Ciò che è emerso è che gli scopi del selfie sono:
- Far ridere e divertire gli altri (39%)
- Vanità (30%)
- Raccontare un momento della propria vita (21%).
Emerge quindi che lo scopo dell’autoscatto non sia tanto quello di apparire, ma piuttosto quello di raccontare agli altri con chi siamo, dove siamo, cosa stiamo facendo e chi siamo. I social network si configurano come un immenso specchio volto a dimostrare a qualunque altro cosa si è, quanto si vale, per comunicare i propri stati d’animo, con il vantaggio di non incorrere nelle difficoltà che si ritrovano nella comunicazione diretta faccia a faccia.
Il concetto di identità, a questo punto, sembra spiegare meglio questo fenomeno. Nella vita online l’identità diviene multipla, in quanto il terreno virtuale si presenta come una specie di zona franca dove aumenta la disinibizione (Pravettoni, 2002). In rete possiamo cambiare a nostro piacimento, decidere se avere un profilo vero o inventato ed essere in rete utilizzando diverse identità potrebbe aiutare a gestire la molteplicità del nostro sé. Ci si può focalizzare su alcuni aspetti della propria personalità che nel mondo reale non sono accettati, oppure mettere in luce quelli che sono difficili da esprimere in alcuni contesti. Attraverso l’utilizzo dei selfie possiamo costruire e controllare la nostra identità, possiamo essere tutto o niente, davanti ad un pubblico che sembra voler ricevere sempre notizie nuove su di noi. Le nostre immagini possono non solo raccontare, ma trasmettere pensieri carichi di emozioni, affermando la presenza del sé nel mondo digitale (Marinelli, 2004)
Piuttosto che associarlo ad un tratto narcisistico della personalità, quindi, il selfie sembra essere una reazione ai tempi di oggi, tempi di insicurezze materiali e soprattutto emotive. È un simbolo del tentativo costante di definire la propria identità, quasi a volerla immortalare, in qualche modo. È una pratica sociale paragonabile ad un culto dell’Io celebrato in un attimo, quello necessario al click della condivisione.
Attraverso il selfie l’individuo prova, in un istante, a catturare il proprio sé, come fosse impegnato in un dialogo interiore, nel tentativo di raccontare il proprio presente, la propria storia, le proprie emozioni, riflettendosi attraverso uno smisurato specchio digitale.
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