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Vaguebooking: ricerca di attenzioni o salvaguardia della privacy?

Li leggiamo ogni giorno nel nostro feed di Facebook. “Non riesco a farlo. Non ci riesco davvero…”, “Senza parole: certe persone non sanno comportarsi”, “Ferita e delusa, ma continuerò nonostante tutto”.

Spogliati del contesto, questi stati di FB sono privi di un vero significato e confondono e allo stesso tempo, in alcuni casi, intrigano i lettori.

In inglese, l’atto di scrivere questa tipologia di post, è detto: “vaguebooking”.

Definito dal Urban Dictionary nel 2009 come un “aggiornamento dello stato di Facebook, intenzionalmente vago, che invita gli amici a chiedere che cosa stia succedendo”, il vaguebook viene percepito come la controparte lamentosa e meno sottile del cosiddetto ‘subtweet’ (post di Twitter scritto per offendere qualcuno senza che sia comprensibile al target in questione).

Chi utilizza questa strategia comunicativa sui social (se così vogliamo chiamarla) non viene spesso apprezzato: il vaguebooking è andato incontro ad una repressione quasi universale.

Tra gli esempi più noti di anti-vaguebook c’è il Tumblr vaguebook.org che mostra screenshot con grandi classici del vague come “a volte non è come te lo aspetti, ma va bene ugualmente”, “sentirsi irritato e deluso da certe persone”, o anche “devi imparare a camminare da solo quando le cose non funzionano più”.

Il vaguebooking merita però una seconda chance, che ci stia simpatico o meno. Potrebbe infatti rappresentare un modo valido per comunicare mantenendo la nostra privacy.
I risultati di uno studio rilasciato nel marzo scorso hanno rivelato che gli adolescenti svolgono un ruolo attivo nel salvaguardare la propria privacy e tra i metodi utilizzati, insieme ai falsi dati personali, nickname e simili, c’è proprio il vaguebooking, in modo che i messaggi siano compresi soltanto dai loro diretti destinatari.

Scriverli privatamente no? Se è la prima cosa che hai pensato, ricorda la premessa: siamo nell’epoca dell’oversharing, rinunciare alla condivisione di aspetti personali sembra oramai un’impresa impossibile.

A causa dello stile crittografico e dell’atmosfera spesso malinconica, o che sottende emozioni spesso crude, il vaguebooking sembra spesso una semplice richiesta di attenzioni (sono qui! Chiedetemi cosa sta succedendo!  Ho bisogno di essere visto!).

Ma forse c’è anche un beneficio psicologico dato dal vaguebooking.
I Vaguebooks possono aiutarci a dare libero sfogo alla nostra necessità – a volte compulsiva – di prendere parte al continuo flusso di informazioni condivise sui social, ottenendo contemporaneamente un duplice risultato: condividiamo informazioni (senza però rivelare troppo) e incuriosiamo gli altri (in alcuni casi) senza rivelarci totalmente.

La scrittura di vaguebook soddisfa la necessità di rispondere alla domanda – perenne – di Facebook, “Che cosa stai pensando?” manifestando (seppur in modo, appunto, vago) rabbia, felicità, tristezza, frustrazione, gratitudine e via dicendo.

Alto aspetto da non sottovalutare riguarda le conseguenze che un nostro post (ricco di dettagli) potrebbe causare.

Il vaguebooking può diventare quindi (udite, udite) un modo intelligente di comunicare e sopravvivere nella piazza digitale. 300 amici di Facebook potrebbero rapidamente trasformare un post irriverente o offensivo in una guerra di commenti e attacchi: un piccolo nucleo di persone potrebbero trasformarsi in una folla arrabbiata nel giro di qualche ora.

In un’epoca in cui i confini tra comunicazione personale e privata sono sfocati, essere vaghi sembra essere è una necessità.

In fin dei conti però va detto: il vaguebooking non fa impazzire neanche a noi; nel profondo (ma neanche troppo) è un atto passivo-aggressivo.
Non tutti abbiamo il coraggio di esprimere come ci sentiamo e affrontarne le conseguenze. Ed è questo che rende il vaguebooking così fastidioso.

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